Kthiar

di Vanessa Maletta

 

L’amore può renderti immortale.
O condannarti per sempre.
.
Viago Dalca ha vissuto secoli sotto nomi diversi, con poteri che sfiorano la leggenda. È un vampiro antico, elegante e spietato, un uomo che ha attraversato imperi, guerre, rivoluzioni, accumulando ricchezze, potere e segreti. Nessuno osa sfidarlo. Nessuno osa guardarlo negli occhi.
Ma sotto l’armatura dell’immortalità, Viago custodisce un vuoto profondo: l’attesa di un amore predestinato, unico, assoluto. Un Legame sacro che i vampiri chiamano Kthiar, raro e irrevocabile.
Per cinquecento anni ha pensato che il destino lo avesse dimenticato.
Finché non ha incontrato Maya.
Una giovane mortale con l’anima inquieta, gli occhi che sanno vedere oltre, e un cuore che batte.
Maya non crede nelle favole, ma nei sogni sì. E nei sogni lui la guarda, la chiama. L’attende.
Quando i loro mondi si sfiorano, l’attrazione è istantanea. Irrazionale. Pericolosa. Ma c’è molto di più del desiderio che arde tra loro: una forza antica, primordiale, che li unisce prima ancora che possano capirne il nome. E ogni passo l’uno verso l’altra li avvicina a un confine invisibile, dove amore e rovina si intrecciano.
C’è un patto da rispettare. Un segreto da proteggere.
E un desiderio che non chiede il permesso per essere consumato.
.
Può l’amore sopravvivere al prezzo dell’anima?
Può un vampiro rischiare tutto ciò che ha… per non perdere l’unica donna che abbia mai amato?
.

15,00 

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Ecco un’anteprima del libro

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PROLOGO

 

25 novembre 1526

Sono vivo. Cammino, parlo, i miei occhi vedono e le mie orecchie sentono. Eppure, il mio cuore non batte. Non riesco più a udire il suono del suo incessante palpitare. Poso la mia mano sul petto e il nulla assoluto risponde beffardo al di sotto di essa. Perfino la mia pelle sembra non appartenermi più, diafana, senza l’ombra di cicatrici o difetti.

È nel colore degli occhi che ogni possibilità di trovare me stesso sembra perduta per sempre. Due pozzi di oscurità senza fine, nel cui nero più cupo vorticano pagliuzze di rosso amaranto, si muovono sinuose come fiamme ardenti, le osservo nello specchio in cui la mia immagine si riflette sinistra, come uno spirito inquietante.

Il mio sguardo indugia sulle labbra, piene e carnose, e scopro d’improvviso di avvertire una straniera sensazione. La mia bocca. Vi è qualcosa di diverso, qualcosa che non mi appartiene eppure so essere parte di me. Mi chino in avanti per osservare meglio e scopro i denti tirando le labbra. Lo sconcerto mi costringe ad avvicinarmi ancora, per accertarmi che la vista non mi stia giocando un brutto scherzo.

Ma più i miei occhi indagano, più sono certo di ciò che vedono. I miei canini ora sono due lunghe zanne appuntite, risplendono alla luce delle candele che avvolge la stanza in cui mi trovo. Sono terribili eppure seducenti, avverto il fascino che sprigionano strisciarmi sottopelle, invadere ogni parte di me e scatenare una violenta sete.

Sete.

Una bramosia, un desiderio smodato e travolgente che mi attanaglia e sconvolge.

Sangue.

Un ammaliante fluire vermiglio si profila alla mia vista, inebriandomi i sensi. L’eccitazione si impossessa delle mie membra in maniera così sfacciata, da far nascere in me perfino imbarazzo. Ma è un turbamento effimero, scacciato via come il vento fa con le foglie d’autunno. Si disperde lasciando spazio solo al desiderio irrefrenabile di dissetarmi, e la consapevolezza che per farlo dovrò andare a caccia.

Sì, perché io lo so, lo sento, che in me ora alberga una belva feroce. Un predatore. Una bestia spietata mossa solo dall’incessante bisogno del rubro nettare umano.

Dovrei avvertire questa necessità come qualcosa di ignoto, al contrario la riconosco come fosse mia da sempre e ciò mi sconvolge e terrorizza. Da quanto un simile istinto ha trovato posto dentro di me? Il tempo, in questo istante, appare talmente confuso da non aver più percezione alcuna di ciò che è stato, di dove mi trovassi e soprattutto, di chi io fossi prima di questo istante. Torno a rintracciare stralci di me stesso, ma la mia memoria non mi svela nulla che possa aiutarmi. Perfino il mio nome mi è sconosciuto. Lo cerco spingendomi fino ai limiti più remoti della mente, mi pare di scorgerlo di tanto in tanto, palesarsi indefinito e subito dopo scomparire in una nebbia fitta, insieme a tutta l’intera esistenza che ha preceduto questo momento.

Nello sforzo di rimembrare qualcosa – qualsiasi cosa – vengo colto di sorpresa dal mio stesso corpo, i muscoli tesi come corde di violino mi obbligano a divaricare la gambe e inarcare la schiena, in una posizione di difesa e insieme di attacco, la bocca spalancata in un ringhio raccapricciante che fa sfoggio dei miei nuovi terrificanti e aguzzi canini.

Al mio udito sopraggiunge una cacofonia di suoni stridenti, le pupille si muovono frenetiche alla ricerca di dettagli, e li vedo – buon Dio – sono in grado di cogliere anche il più impercettibile granello di polvere presente in questa stanza illuminata soltanto dalla luce fioca di una manciata di candele consumate. Persino il mio olfatto raccoglie una così vasta quantità di odori diversi che mi è impossibile distinguerli tutti.

È allora che la porta si spalanca in un cigolio fastidioso, lasciando entrare la figura di un uomo alto e robusto, il viso dai tratti affilati calamita ogni attenzione sugli occhi, scuri come la pece e – esattamente come i miei – screziati di rosso. Appoggia la schiena al muro incrociando le braccia muscolose fasciate da una raffinata casacca in seta color porpora, sulle spalle ricadono lunghi capelli castani. Mi studia da capo a piedi, per nulla intimorito. Lo deduco dall’atteggiamento rilassato, ma ancor più da quel sorriso compiaciuto che gli inarca le labbra.

«Bentornato fra noi, generale Zapolja.» Nell’udire quel nome mi pare di essere travolto da un potente colpo allo stomaco.

«Zapolja…» ripeto incerto.

«Juraj Zapolja, figlio del Palatino del Regno di Ungheria e della principessa Hedwig di Cieszyn.» La mia mente precipita lungo uno strapiombo, e nella rovinosa discesa mi si aggrappano addosso immagini, nomi, ricordi e sensazioni. Tento di tenerli tutti con me, non voglio perderli ancora e finire nel buio terrificante in cui barcollavo fino a poco fa.

«Adesso comincio a ricordare. Cosa mi è accaduto? Voi chi siete?»

«Sorin Orlov. Al vostro servizio, generale,» un accenno di inchino in segno di riverenza, «desiderate avere i dettagli, o un sunto degli eventi, mio signore?»

«State forse facendo del sarcasmo?» Non comprendo se è il mio senso di smarrimento a confondermi, o se questo sconosciuto si sta facendo beffa di me.

«Sapete, generale, ho vissuto ciò che state provando voi adesso e conosco ogni terribile sensazione che attraversa la vostra mente, e so che nessuna parola vi sarà di conforto. Non sono qui per consolarvi, mio signore, tantomeno per prendermi gioco di voi. Sono qui per istruirvi.»

«E a cosa, di grazia?» Rispondo stizzito.

«Alla vostra nuova… natura.» Il modo in cui pronuncia tale parola sembra conferirle un significato tutt’altro che rassicurante.

«Dove arrivano i vostri ricordi, generale?» Lo sconosciuto – Sorin – prende posto nella sedia accanto alla mia. Sembra beneducato, gentile e si muove con grazia, quasi come fosse spinto da un vento impercettibile. Nonostante la sua aria affabile, non riesco a smettere di sentirmi minacciato da qualcosa di invisibile ai miei occhi, ma della quale i miei sensi sembrano invece essere consci e starne in guardia. E se quest’uomo fosse la causa di questa mia nuova inverosimile condizione?

«Ricordo il colpo al petto, una lancia credo, e di essere caduto da cavallo.» Indosso soltanto dei calzoni e il mio sguardo scorre sul mio torace alla ricerca di una traccia del colpo che mi hanno inferto, ma non vi scorgo nemmeno l’ombra di un graffio. Alzo gli occhi e incrocio quelli di Sorin, che mi osserva consapevole di ciò che sto per chiedere. Mi anticipa.

«Non sono stato io a ferirvi. Non penserete che abbia partecipato alla battaglia?» chiede stupito.

«Di quale battaglia parlate?»

«Quella che il vostro Re Luigi credeva scioccamente di poter vincere contro l’esercito ottomano comandato da Solimano, mio signore. Voi eravate a capo delle truppe a difesa dei passi dei Carpazi.» Sono confuso dai ricordi che iniziano a illuminare l’oscurità della mia memoria come lampi fugaci, e mentre Sorin prosegue nel suo racconto, lascio che il mio sguardo si perda nel vuoto, un vuoto in cui tento di far prendere vita gli eventi che mi hanno condotto a questo incredibile presente.

«Un conflitto che si annunciava disastroso fin dal principio: ventisei mila dei vostri contro un’armata di quasi sessanta mila soldati. L’esercito turco ha conquistato ogni città incontrata lungo il cammino per Buda, e quando ha fatto breccia nella capitale, né l’aiuto delle truppe guidate dall’arcivescovo Tomori né il vostro sono valsi a qualcosa.» Sorin si interrompe, studia il mio volto in cerca di una reazione, e so che può leggervi solo sgomento. La nebbia che offuscava i miei ricordi si sta diradando sempre più, lasciando affiorare tutto ciò che vi si nasconde al di sotto.

«Mohács… è lì che è avvenuto lo scontro finale» la mia voce è quasi un sussurro.

«Sì, mio signore, ricordate bene. Il rovinoso epilogo della battaglia ha avuto luogo a Mohács.» Mi accorgo che Sorin non è più seduto accanto a me, ma non ho udito un solo rumore né percepito il benché minimo spostamento d’aria. L’attimo prima era al mio fianco, e quello dopo davanti alla finestra, lo sguardo oltre i vetri, tuffato nel profondo della notte. Devo essermi ammalato, e tutte queste stranezze inspiegabili essere solo sintomi di un qualche morbo. Un bravo medico che mi faccia un salasso, ecco di cosa ho bisogno. Ma prima… prima devo sapere cosa è accaduto ai miei uomini. Dovrò rispondere al mio Re.

«Fornite maggiori dettagli, se non vi spiace.» Il tono teso della mia voce lo costringe a voltarsi ma il suo viso non si altera dallo stato di quiete in cui sembra crogiolarsi con costanza. Proprio come quando è entrato nella stanza, si lascia cadere con le spalle al muro. Quest’uomo sembra non riuscire a star ritto sulla schiena per più di un minuto.

«I numeri di Solimano erano di gran lunga troppo superiori per sperare in un esito diverso dalla sconfitta, mio signore. Sono certo che, da esperto generale ne foste già consapevole, ancor prima di scendere in campo.»

«Non tutte le sconfitte sono uguali. Alcune sono disastrose, altre incontrano la via della diplomazia» rispondo laconico.

Sorin si schiarisce la voce, poi torna a rivolgere il suo sguardo verso l’oscurità che ammanta i profili delle case e degli alberi.

«Questa, generale, appartiene al primo caso.»

È da quando ha iniziato a narrare gli eventi della battaglia che un brutto presagio striscia fra i miei pensieri. I ricordi ora si sono fatti più chiari, ma sono ancora fuggevoli, e manca sempre quel tassello – fondamentale – in grado di spiegarmi cosa mi è accaduto.

«Molti soldati ungheresi sono stati assaliti dal panico, dandosi alla fuga. L’arcivescovo Tomori è stato ferito mortalmente nel tentativo di radunare le truppe fuggiasche.»

«E re Luigi?» La risposta a questa domanda mi dirà molto più della sola sorte che è spettata al sovrano d’Ungheria.

«Ha perso la vita cadendo da cavallo, nei presi di Csele. La giusta fine per un re che abbandona il proprio esercito cercando di fuggire, non trovate anche voi, generale?» Sorin non prova nemmeno a nascondere il disprezzo che nutre, gronda da ogni parola che pronuncia, e io non posso far altro che sentirlo nascere e crescere anche dentro di me.

«Vigliacco» mi lascio sfuggire stringendo il pugno. Sono stato addestrato a combattere fin da bambino, non ho conosciuto il calore premuroso delle carezze di mia madre né mai udito tenere parole uscire dalla bocca di mio padre. Spada, onore, gloria e fedeltà al regno, al mio Re. Nient’altro che questo.

«Quante perdite in totale?» Mi costa fatica chiederlo, ma devo sapere.

«Sedicimila caduti. Almeno due mila prigionieri. E prima che me lo chiediate: l’Impero ottomano controlla tutta la bassa Ungheria, adesso.» La delusione si mescola alla rabbia, trasformandosi in un velenoso sentimento che per qualche istante mi fa dimenticare ciò che più mi preme sapere, ma Sorin mi anticipa. «Avete combattuto con valore, mio signore. So per fonti certe che non vi siete sottratto ai vostri doveri di generale, confermando di essere un uomo e un comandante virtuoso. Il colpo che vi è stato inferto vi ha disarcionato da cavallo, avete perso i sensi e non siete stato soccorso tempestivamente perché vi hanno creduto morto.»

«Chi mi ha trovato, allora? E dove mi trovo adesso? Fuori scorgo un paesaggio autunnale, ma ricordo con sicurezza che l’attacco di Solimano è avvenuto negli ultimi giorni del mese di agosto» parlo agitando le mani mentre mi avvicino a Sorin, accanto alla vetrata appannata per il freddo. Freddo che intuisco, ma che non avverto, nonostante sia seminudo. Anche questo deve essere uno dei misteriosi sintomi della malattia che ho contratto.

«Se credevate che il racconto della penosa sconfitta fosse la parte più difficile da digerire, mio caro generale, vi assicuro che ciò che sto per narrarvi vi sconvolgerà in maniera del tutto nuova.»

«Sono… malato? Sto per morire, vero? Deve essere accaduto in seguito alla ferita, forse una grave infezione o un’epidemia. Tifo? Peste?»

Sorin sorride. Un sorriso mesto e angosciante. «Voi non state per morire, generale Zapolja. Voi siete già morto.»

La risata isterica che sfugge alla mia bocca quasi spaventa persino me stesso. Sembra provenire da qualcuno che non sono io. «Poc’anzi avete affermato che non era vostra intenzione prendervi gioco di me, ma ora queste vostre parole mi dicono tutt’altro.» Sono consapevole ci sia qualcosa che non va in me, e a giudicare da ciò che percepisco – o meglio, da ciò che non percepisco più di me – deve trattarsi di qualcosa di spaventoso. Non so più cosa aspettarmi.

«Non vi è ombra di derisione nelle mie parole, signore, ma comprendo sia difficile convincersi del contrario. Devo chiedervi di avere fiducia in me, e di ascoltare senza preconcetti.» Non apro bocca e gli faccio un cenno con la mano invitandolo a proseguire.

«Lo scontro si è concluso in fretta, la disfatta è stata repentina, il campo di battaglia un’enorme distesa di corpi esanimi e detriti. Gli uomini di Solimano hanno permesso agli ungheresi di recuperare i caduti soltanto nei giorni successivi. In molti potevano essere salvati, ma il ritardo nelle cure ha causato ancora più decessi.» Sento la rabbia accendere uno strano fuoco dentro di me, aggrovigliarmi le viscere e risalire verso l’alto.

«Quando è sopraggiunta la notte, insieme al buio è calata sul campo anche un’orda di orribili bestie, e no – mio signore – non mi riferisco ai lupi e agli orsi.» Sorin parla senza mai agitarsi. Dovrebbe infondermi una certa serenità, invece non sta facendo altro che alimentare la mia angoscia. «Vi sono delle bestie che l’uomo preferisce considerare il frutto della fervida immaginazione di poeti e scrittori, o figlie di sciocche credenze popolari, protagoniste di quelle favole oscure che si raccontano ai bambini attorno al fuoco, per spaventarli e impressionarli.» Sorin alza un braccio e di colpo la stanza piomba nel buio. Sento il leggero crepitio degli stoppini delle candele che si spengono, l’aria appesantirsi talmente da diventare palpabile. Un misto di paura e trepidazione si impossessa della mia mente e di ogni mio senso. Non vi è più luce, eppure riesco a scorgere ogni oggetto che mi circonda, compreso Sorin e i suoi occhi, che adesso sprigionano un bagliore intenso e minaccioso. Distinguo anche il suo sorriso tirato, che dipinge un ghigno malefico e raccapricciante, reso ancora più terribile da quei canini che scendono appuntiti e taglienti, orribili eppure magnifici. Per qualche attimo mi perdo alla vista ammaliante di questa figura, insieme orrenda e attraente. Senza nemmeno rendermene conto, torno ad assumere una posizione sconosciuta a qualsiasi addestramento alla lotta mai ricevuto, qualcosa che definirei animalesca. Non ho controllo su ciò che accade al mio corpo. La schiena si inarca in modo innaturale, le ginocchia si piegano, le braccia protese in avanti e le mani, ora una orripilante estremità dalla forma allungata, quasi scheletrica, hanno artigli al posto delle unghie. I muscoli della mia faccia si tendono per consentire ai miei denti aguzzi di farsi spazio, e il ringhio che sale dalle profondità della mia gola è agghiacciante persino quando giunge alle mie stesse orecchie.

«Eccole, generale, le bestie di cui vi parlavo, una di fronte all’altra in questa stanza. L’evidenza non può essere smentita.» La sua voce non è più quella mite e avvolgente che ho ascoltato fino a un istante fa, adesso è avviluppata alla stessa oscurità che ci circonda, gelida e graffiante. «Non siete malato, mio signore, e mi rammarica dirvi che perderete il conto, in futuro, delle volte in cui desidererete aver contratto qualsiasi malattia, qualsiasi morbo al posto della condizione che invece il destino vi ha riservato. Il vostro nuovo istinto mi sta considerando come una minaccia in questo istante, ma non lo sono. Vi sono amico, credetemi.»

«Se siete sincero, allora ditemi cosa mi è accaduto. Ditemi cosa sono diventato, prima che la mia mente impazzisca.» Sono disperato. Spaventato, e sconvolto. Con uno schiocco delle dita, Sorin riporta nella stanza il tepore della luce ambrata delle candele, e in un battito di ciglia ritorna al suo aspetto… umano. Lo seguo l’istante successivo osservando ancora incredulo le mie mani, ora normali.

«Non vi basterà la spiegazione che vi darò, e avrete bisogno di pormi molte domande, e di tempo. Tempo per comprendere, per abituarvi e imparare i meccanismi oscuri che regolano l’esistenza di noi creature oltreumane

«Di quali creature parlate?»

«Vampiri, mio signore. Lei, io: siamo vampiri.» Sorin mi lascia galleggiare nel silenzio per qualche momento, ma non so nemmeno da quale parte iniziare per metabolizzare una simile notizia. Tutte le idee e le convinzioni che hanno formato la mia visione del mondo, si stanno sgretolando. È come scivolare in un dirupo privo di appigli ai quali potersi aggrappare, e continuare a cadere in un precipizio senza fondo. «Imparerete che non tutti i vampiri sono uguali, ve ne sono di più virtuosi e altri di scarsa morale, e altri ancora che – semplicemente – non hanno scelta, e sono questi quelli che hanno preso d’assalto il campo di battaglia durante la notte, cibandosi dei cadaveri dei caduti e dei feriti, come nel vostro caso. Chi si è nutrito di voi non era in possesso del sufficiente giudizio per comprendere quando fermarsi.» Buon Dio, non posso credere che tutto questo sia reale.

«Io vi ho trovato qualche settimana dopo, in preda allo straziante passaggio dalla condizione umana a quella vampiresca, che solitamente andrebbe seguito e guidato da un vampiro esperto. La follia vi stava obnubilando la mente. Vi ho portato via con me, assistito per settimane, fin quando il delirio dello spirito e la sofferenza del corpo non si sono placati.»

Pur sforzandomi, non ricordo nulla di questi atroci momenti di cui Sorin mi sta parlando, e forse è meglio così. «Dove ci troviamo adesso? E che giorno è?»

«Siamo a Nagyszeben, mio signore. E oggi è il venticinque novembre.»

«Sono trascorsi più di due mesi… e siamo lontani da Buda» penso ad alta voce, e Sorin non aggiunge altro lasciandomi proseguire. «Perché vi rivolgete a me con tanta ossequiosità?»

«Siete pur sempre un nobile e un valoroso generale. La vostra elevata statura morale era riconosciuta e stimata in ogni angolo del Regno di Ungheria. Il Maestro dell’Ordine dei Vampiri del Granducato di Mosca, del quale sono l’umile vassallo, seguiva da anni il vostro operato politico e militare. Ci siamo incontrati più spesso di quanto possiate anche solo immaginare, mio signore. Al momento dell’invasione di Solimano, mi trovavo a Buda per questo motivo. Per sorvegliarvi» dichiara serenamente.

«Mi avete spiato?» domando seccato. «Per quanto tempo, e poi per quale motivo?» aggiungo sempre più irritato.

«L’esercizio del potere non è questione esclusivamente umana, sapete? Persino fra noi vampiri occorre mantenere ordine, difendersi, pianificare strategie, reclutare gli elementi con maggior potenziale.» Mi fissa con gli occhi socchiusi, un sorrisetto sghembo a piegargli le labbra.

«Mi state dicendo che farmi diventare come voi era già nelle vostre intenzioni da tempo?» Sono scioccato.

«Vi stavamo osservando da molto, e c’erano tutte le intenzioni di portarvi dalla nostra parte. Le preziose qualità che da umano vi definivano come eccezionale, ora possono trasformarsi in poteri straordinari.» Lo guardo perplesso.

«Stiamo attraversando un momento di profonda instabilità, con lotte intestine per il predominio di una consorteria sull’altra, alle quali si aggiungono tensioni continue con le altre specie, tutte interessate a raggiungere una sorta di egemonia in questa nostra complessa e sempre precaria società.»

Ciò che sta lasciando intendere Sorin, dunque, è che i vampiri non siano gli unici mostri a esistere.

«Quante… creature diverse ci sono?» lo interrogo sbigottito.

«Come noi, moltissime. Diverse da noi, altrettante, mio signore.» La risposta di Sorin mi atterrisce. «Sono molte le cose che dovete ancora scoprire, e sarò ben lieto di rispondere a ogni vostra domanda e farvi da guida. Ma ora, mio signore, c’è qualcosa che non possiamo più rimandare oltre.» Spalanca l’enorme vetrata con un solo cenno della mano.

«Dovete nutrivi» annuncia con solennità e una punta di trepidazione. Un istante dopo lo vedo gettarsi dalla finestra, e un riflesso involontario mi obbliga a tendere una mano per riacciuffarlo. Ma Sorin non ha bisogno di essere salvato, poiché due enormi ali nere spuntano dalla sua schiena confondendosi nel buio della notte, e se dapprima temo che la mia mente non riesca a contenere tutto ciò che sto apprendendo e vedendo, so che questo non è che una briciola di ciò che mi attende.

Pronto o no, lo seguo.

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